martedì 26 aprile 2011

Moleskine.

" L'ira funesta del pelide Achille. Ci sarà un girone di ritorno, prima o poi. "

C.C.

martedì 5 aprile 2011

Lettera ad un sognatore.

Ti scrivo, perché ormai è ciò che mi resta più utile fare in questi ultimi istanti. Voglio raccontare il mio cammino, il mio percorso verso ciò che ha reso tutto questo possibile: la giustizia. Ciò che ci rende dotati di raziocinio, ciò che mi rende in grado di sentire le dita sfiorare la carta.
Ti scrivo perché le parole fluiscono veloci attraverso l’inchiostro della penna, e macchiano il foglio. Ti scrivo, perché è l’unico mezzo che ho per assaporare un attimo di umanità, che scende come lacrime, rigandomi le guance.
Era iniziato e finito tutto allo stesso momento. Erano passati velocemente davanti ai miei occhi i 30 anni più caldi e suggestivi della mia esistenza. Il sole si smarriva lontano, all’orizzonte, e la sera scendeva lenta sulla valle. Era uno spettacolo magnifico: il verde degli alberi e il marrone della terra danzavano inermi di fronte a tale scenario, e il vento leggero soffiava tra le chiome folte dei pini. La città di Stevenson si affacciava aliena di fronte alla selva, e non mi era mai apparsa così lontana, estranea. Il mondo scorreva frenetico sotto i miei piedi, ma il corpo non riusciva a muoversi di un solo centimetro. Era forse quello l’odore della libertà? O solo una beffarda illusione? I pensieri si contorcevano violentemente nella testa, e non mi lasciavano in pace. Potevo scappare forse? Avrei potuto davvero sciogliere le catene che mi tenevano incollate mani e piedi?
Mi dicevano di essere nata libera. Di poter decidere della mia vita, dei miei bisogni, delle mie passioni. Si assicuravano che io crescessi con dignità, nel rispetto della volontà altrui. Mi assillavano con pesanti questioni sul buon costume, sul galateo, sulla cara onestà. Erano solo bugie? Non riuscivo a rispondere. Gli occhi guardavano lontano, in cerca di un segno, che non arrivava mai.
Contavo i secondi, me li tenevo stretti, come un tesoro prezioso. Il tempo mi giocava spesso brutti scherzi, ma, di fronte al crepuscolo, si avvolgeva dolcemente intorno alla mia vita. Avevo sempre odiato questo paese, fin dal primo vagito. Mi era sempre sembrato così ostile, così incoerente. Ma il sole, ormai quasi scomparso, lo animava di una luce intensa,  interessante. Mi guardava sprofondare pian piano nell’oblio, e riusciva persino a farmi sentire in colpa. Ma quale colpa? Essere stata fedele a me stessa, forse? Fino a che punto potevo sentirmi “sporca” per qualcosa di inesistente? Una classifica di contraddizioni. L’istinto non poteva prevalere sulla ragione, doveva essere domato ed eguagliato da essa. I contrari si inseguono costantemente lungo tutto il corso della loro esistenza, e ci aiutano a capirne le differenze. Ma quando uno dei due riesce a distruggere ogni barriera?
Era la guerra. Era la morte. Potevano urlare, distruggere case, correre con tutto il fiato in corpo. Ma governava il silenzio, e la fatica. La cittadina di Stevenson era indifesa, in preda al panico. Li chiamavano Vijand: erano persone comuni, come me, come te. Arrivarono, e portarono via ogni qual forma di idea, di pensiero, di creatività. Cosa mai può fare l’intelletto contro una pistola puntata alle tempie?
Avevano preso Stevenson con estrema facilità, e ne modellavano ogni suo aspetto con altrettanta furbizia. Il governo, ormai in ginocchio, sfilava disperato davanti ai loro piedi, e mai e poi mai mi sarei sognata di seguire i loro orribili piani, qualora essi mi avessero chiesto di dar loro una mano. La mente umana è talmente duttile: la popolazione pian piano digeriva ogni notizia, assimilava ogni falsità, pur di vivere tranquilla. Le leggi erano l’arma principale per una tirannide forte e vigorosa, e la parola “diritto” era scomparsa da qualsiasi dizionario. Il dovere era il monarca assoluto, e la propria vita era il prezzo da pagare se non se ne lodava ogni suo aspetto. Il mondo era ormai di plastica: sorrisi immobili, movimenti controllati, frasi ripetute fino allo sfinimento. Dov’era finito l’amore? L’odio? La tristezza? L’allegria? Erano state rimpiazzate, da modellini pre-fabbricati e venduti in serie. Il cuore non batteva già più: gelido, se ne stava nella sua cella dorata, in attesa di un salvatore.
Eppure, in tutto questo grande blocco, qualcosa cominciava a scheggiarsi. Il silenzio diventò un piccolo brusio, e pian piano delle vere e proprie voci, sottili e pungenti. Si stava risvegliando qualcosa, riuscivo a sentirlo. Le voci diventarono veri e propri fragorosi lamenti, ne ricordo ancora il rumore. Rimbombavano per tutte le piazze, e le chiese sembravano piuttosto bar affollati. Il caos cominciò a far sentire il proprio grido, e dietro a tutto questo vi era solo un vero artefice: la sottoscritta.
Cosa era diventato giusto rispettare? Un bavaglio forzato? Era difficile esprimersi chiaramente. Tutto quel finto mondo era riuscito a resistere, e aveva donato comunque un certo lustro a Stevenson, pregio di cui non godeva da tempo. Mi avevano insegnato a onorare le decisioni di uno stato, ciò che doveva servire per regolare e guidare saggiamente un popolo. Eppure, ciò che sembrava lecito fare cominciò a tramutarsi in qualcosa di infimo e sbagliato. La gente non moriva di fame, né tantomeno rischiava la bancarotta. Ma tutto era basato su una menzogna. Le regole erano bugie studiate in un perfetto equilibrio, sebbene esso mi sembrasse spesso precario.
Provai a diffondere racconti, novelle, fiabe. Volevo donare di nuovo l’arte agli esseri umani. Ciò che producevano non era arte: non era libera, non era copia della realtà, non era nemmeno opera astratta. Era tutta un’impostazione, un atteggiamento forzato. La mia voce si fece sentire, e viaggiò insinuandosi in ogni abitazione, nei cuori di migliaia di padri, madri, figli.
Erano davvero sicuri di rinunciare alla loro vita per un capriccio? O forse non lo era. No, forse sono troppo dura. Un capriccio si compie quando si ha davanti a sé più di una scelta. Ma, in quel caso, di scelte ne avevano ben poche. Allora cos’era? Nessuno riusciva a spiegarselo, era solo potente e avvolgente.
I ribelli, spinti dall’istinto a cui facevo prima riferimento, cominciavano col tempo a diminuire nel numero. L’ordine tornava a frenare gli impulsi,  e mi ritrovai sola, contro fucili e armi mortali. Ero stata tradita, ne ero più che certa. Ma non solo dal popolo: da me stessa. Ero stata travolta in un momento di grande fragilità, e non potevo perdonarmelo. La gabbia in cui mi sentivo rinchiusa da ormai 20 anni cominciava ad arrugginire, e si sgretolava portando con sé anche una parte di me. Cosa, ripeto, cosa è davvero giusto? Non l’ho mai compreso fino in fondo. E ancora questo dubbio mi logora nel profondo, e mi accompagna verso la mia triste sorte.
Il sole era ormai scomparso, e tutto era volato via. In quell’oscurità, tutto mi sembrava più chiaro: non esisteva davvero un principio più retto dell’altro, esistevano solo opinioni comuni, più o meno condivise. Il mondo che mi era sembrato così finto e surreale, era invece la realtà, la verità che si era creata ed era nata intorno alla menzogna. Era un paradosso, non aveva senso. Ma in qualche modo, ero riuscita a negare ai miei occhi ciò che si era palesemente espresso: la voglia di vivere e di sentirsi uniti in un dolore unico. Le persone vivevano tranquille nelle loro falsità, e quelle leggi che io tanto disprezzavo erano amate e sostenute. La differenza tra ciò che era il mio concetto di morale, di etica, si scontrava con ciò che era essa per la cittadinanza. Il bene comune era diventato più importante di un mucchio di sogni e fantasie, di grandi utopie. Era lì che si beffeggiava di me e di tutte le mie idee, ma non potevo farmi sbattere a terra così, senza nessuna lotta. Continuai sulla mia strada, scappando e nascondendomi per tutto il paese, finché non decisi di lasciarmi inerme, in balia degli eventi. Pensai a Socrate, riflettei sulla sua morte. Potevo essere in grado anche io di mettere da parte il mio tumulto interiore e riconoscere i miei doveri da bravo cittadino?
Mi vergognavo di ciò che avevo causato, di ciò che avevo diffuso come una malattia, ma che poi si era spenta facilmente. Spesso critichiamo ciò che non ci aggrada solo per il gusto di metterci in mostra e ignoriamo il vero significato intrinseco in ogni azione che viene compiuta. Forse era stato il mio caso. Il popolo, a quel tempo, poteva bere tutto ciò che si dava loro, e probabilmente provai ad approfittarmi di questo.
Ma quindi può essere tutto relativo? Perfino le leggi possono esserlo? La doxa è fallace, ma anche plausibile. Il meccanismo è complesso, e non mi dilungherò in una serie di domande retoriche inutili e pesanti. Il punto è che il distacco tra ciò che era comune morale, comune ragione, era stata spazzata via da una passione improvvisa, che mi aveva lasciata vuota in un angolo.
Durante la notte il freddo si fece sentire, ma non riuscivo a concentrarmi nemmeno su un problema talmente banale da essere quasi superficiale. L’erba era bagnata e mi inumidiva le dita, e mi sdraiai sotto le stelle. La mattina dopo, svegliata dalla luce forte del giorno, mi ritrovai circondata da un gruppo informe di persone. Ridevano, imprecavano, tiravano sassi. Erano la mia fine, e non tentai nemmeno di opporre resistenza. Mi portarono via, e mi fecero salire su un carro sudicio e maleodorante.


E adesso ti scrivo. Sono arrivata al capolinea, ad un addio senza ritorno.  E mi ritrovo a sorridere ingenua, davanti ad un pezzo di carta consunto. Verba volant, scripta manent, recitavano così.
Forse non troverò mai una risposta, e nemmeno, in fondo, voglio trovarla. Riesco a pensare solo a quanto l’uomo possa essere pervaso dal desiderio di libertà da poter addirittura credere di essere davvero libero. Ciò che è giusto in ognuno di noi deve essere il continuo rispetto e il continuo diritto a vivere la propria vita in grande tranquillità. Che sia una bugia, che sia la verità più squisita. Ciò che ci accomuna è l’essere esseri umani, tutti quanti, uguali di fronte alle avversità e alle difficoltà della propria esistenza. L’etica collettiva, non deve accontentare, deve guidare, nella sua imperfezione, la decisione di una morale personale e interiore, ancor più malleabile e delicata.
Ora ti saluto straniero, parto per il mio ultimo viaggio.

“Avuto conferma di vento a favore, tolgo gli ormeggi”.

Elizabeth, 1984.